La gallina dalle uova d’oro

©Barbara Bonesini

Ogni anno decine di migliaia di persone si riversano a Venezia per assistere al suo Carnevale. La nostra autrice ci vive già da più di trent’anni. Ai suoi occhi, la città si è tramutata in un cimelio da esposizione, da cui a trarre profitto è soprattutto il primo cittadino

Di Petra Reski
Traduzione dal tedesco di Stefano Porreca

In direzione di Piazza San Marco si riesce a camminare solo a passettini. Tutt’intorno non si vedono eleganti dame in abiti rococò, arlecchini, né pulcinella, solo turisti giornalieri dallo sguardo rassegnato che spunta dalla mantella anti-pioggia e disposti a fare un lungo viaggio dalla terraferma pur di trascinarsi per le calli, rasentando i bazar bangladesi “tutto a un euro”, con le gondole oscillanti, e i negozi di pasta per asporto.

Con 90mila visitatori nell’ultimo sabato di Carnevale, la kermesse di quest’anno è stata dichiarata un flop, benché il concetto di “flop”, in una città che è invasa da 30 milioni di turisti l’anno, sia naturalmente relativo. Il weekend che precede il Martedì grasso è per tradizione considerato l’apice della manifestazione, nei cui giorni clou „di norma” 150mila visitatori si trovano faccia a faccia con i 49mila veneziani superstiti, sempre che non siano fuggiti.

A Venezia, la monocultura turistica da trent’anni a questa parte è venerata alla stregua di una religione di Stato: a segnarne l’inizio fu il sindaco di lungo corso e tanto coccolato dai media Massimo Cacciari, quando nel 1994 col suo manifesto delle privatizzazioni garantì agli investitori di spianare loro la strada. Detto, fatto: in trent’anni la città ha perso 30mila residenti. Il piano inaugurato dal sindaco filosofo è stato attuato da tutti i suoi successori. Venezia non dev’essere più una città, ma solo un oggetto da esposizione. Oggi agli ultimi 49.172 abitanti rimasti si contrappongono 50.016 posti letto turistici.
Tutti gli appartamenti disabitati non vengono dati in affitto, ma convertiti in case vacanze. Venezia è la città che ne conta il maggior numero in tutt’Italia.

Grazie all’Ong veneziana Ocio, che studia gli spazi abitativi della città, sappiamo che la storiella dei bisognosi che affittano una stanza per aumentare le entrate non è mai stata vera. L’appena 5 per cento dei locatori possiede centinaia di appartamenti, ma realizza il 30 per cento del fatturato. Il 75 per cento di costoro non vive a Venezia. Tra i profittatori della peste Airbnb vanno annoverati anche alberghi, assicurazioni e altre aziende che conducono innumerevoli locazioni turistiche: “Interi edifici residenziali sono stati di fatto trasformati in alberghi senza essere sottoposti a una valutazione urbanistica o fiscale. Cosicché anche loro possono usufruire dell’agevolazione fiscale per le locazioni turistiche, che è al ventitré per cento”, afferma Francesco Penzo di Ocio, e sottolinea come sia assurdo che una legge comunale imponga che il limite temporale degli affitti a fini turistici, come Airbnb, sia di 120 giorni, ma non venga applicata. Perché il primo cittadino è dispensato dall’obbligo di applicare la legge.

Tra gli sfruttatori della peste Airbnb ci sono anche le cimici da letto. A differenza che negli alberghi, infatti, dove il servizio igiene ambientale provvede a bloccare l’ulteriore fruizione della camera infestata da questi insetti, non può dirsi lo stesso per le case vacanze. Dipende solo dal proprietario, che si priva malvolentieri del suo guadagno.

Visto che nelle case di Venezia ormai vivono pochi veneziani, nelle calli non si sente più parlare il veneziano. Ma inglese, francese, tedesco e – talvolta – italiano. Per conoscere l’identità di qualcuno che si sta muovendo tra le calli di Venezia, non occorre che apra bocca, basta che abbia uno smartphone nella tasca. Con questo, svela al cervello digitale del Comune i suoi più riposti segreti: la Smart Control Room è specializzata nell’estrapolare dati. Grazie a smartphone connessi e geolocalizzati automaticamente, sensori, 700 videocamere di sorveglianza con riconoscimento facciale e 50 rilevatori di movimento, il Comune di Venezia sa che, dei 90mila visitatori affluiti l’ultimo sabato del Carnevale appena trascorso, 60mila sono arrivati dall’estero: il 16,3 per cento dalla Francia, l’11,5 dall’Inghilterra, il 10,1 dalla Spagna e il 9,9 dalla Germania, incredibilmente anche residenti ai Caraibi, dell’isola di Aruba e delle Antille olandesi, e centroamericani del Belize. Il 22 per cento degli italiani arrivava da Lombardia e Friuli, l’8 dal Veneto. Con la Smart Control Room, il Comune di Venezia dispone di una massa di dati di cui non sappiamo come vengano usati, ma sappiamo che oggi come oggi sono più preziosi di qualunque materia prima.

Gli eventi legati alla kermesse vengono commercializzati da Vela, il braccio operativo del Comune, che organizza anche le feste tradizionali della Regata storica e del Redentore. La macchina da soldi del Carnevale funziona: un biglietto per lo show all’Arsenale, a una famiglia di tre persone, è venuto a costare più di cento euro.
Venezia è la gallina dalle uova d’oro. Anche per il resto del Veneto, da cui i turisti giornalieri partono col pullman o in barca. Di conseguenza, il Veneto da qualche tempo ha cominciato a chiamarsi The Land of Venice, senza calcolare che Venezia può essere tutto ma non una land. In questo mondo parallelo, però, in cui Venezia non è più una città ma solo un prodotto vendibile sul mercato, la realtà non ha più importanza.

Il Carnevale di Venezia oggi, uno spettacolo di massa in una città ridotta a comparsa: mentre migliaia di persone senza travestimento col loro smartphone vanno a caccia di qualcuno mascherato, i pochi privilegiati con crinolina e parrucca in polvere si avviano verso il Ballo del Doge, la festa in costume più costosa della città, in cui si è intrattenuti da acrobati, ballerini e contorsionisti. A nord della città, tra le imponenti colonne in marmo della Scuola della Misericordia un tempo si radunava l’omonima confraternita, della cui misericordia oggi non c’è quasi traccia, se, per entrare nell’edificio rinascimentale gestito dal sindaco, chiedono 5mila euro a persona. Coloro che non se lo possono permettere, possono sempre guardare i piatti vuoti all’after dinner, al costo di 800 euro.

L’attuale sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, ha ottenuto in gestione a titolo gratuito l’edificio progettato dall’architetto del Rinascimento Sansovino fino al 2051; a fronte degli 11 milioni di euro che sostiene di aver speso per restaurarlo e avrà già recuperato affittandolo per eventi.

Brugnaro è stato eletto la prima volta nel 2015 e nel 2020 è stato confermato nel suo incarico per altri cinque anni, ma non dai veneziani: più del 63 per cento di loro ha votato contro. Brugnaro è originario di Spinea e – dal punto di vista di un veneziano – è un campagnolo, che non vive nemmeno nell’ex provincia di Venezia, ma in quella di Treviso, a Mogliano Veneto, i cui abitanti, grazie al nobile gesto del reggente Luigi Brugnaro I, nei giorni festivi possono visitare gratuitamente i musei, privilegio precedentemente riservato solo ai veneziani.

Per comprendere perché Venezia venga governata da sindaci che né abitano in città, né rappresentano gli interessi dei veneziani, occorre sapere che non possiede una propria amministrazione, ma durante il fascismo un abile gruppo di imprenditori la trascinò in un matrimonio forzato con la terraferma: ai tempi di Mussolini a Venezia vivevano ancora 200mila abitanti, in terraferma solo 40mila. Oggi il rapporto si è praticamente capovolto. La maggioranza dell’elettorato vive in terraferma: ai 177mila abitanti di quest’ultima si contrappongono poco più di 49mila veneziani; si potrebbe dire: “una battaglia persa”.

A eleggere il primo cittadino di Venezia non sono i veneziani, ma gli abitanti di Mestre, Marghera, Favaro, Campalto, Chirignano-Zelarino, dove il contesto di vita si differenzia intrinsecamente da quello di Venezia: acqua versus terra. La terraferma è Brugnaroland, a Venezia, invece, si raccolgono molti critici. Motivo per cui il sindaco Brugnaro si è vendicato con i veneziani, nominando nella sua giunta solo abitanti della terraferma.

Cinque volte con un referendum popolare i veneziani hanno tentato di sottrarsi al matrimonio forzato, cinque volte sono stati battuti dalla terraferma. Perché tutti i sindaci di Venezia difendano questa unione forzosa alla stregua del dogma della Trinità, si spiega con i fondi della Legge speciale per la tutela di Venezia, che semplificano l’amministrazione della terraferma: fondi che non servono alla custodia delle fondazioni e dei palazzi veneziani, ma finiscono nei marciapiedi della terraferma.

Oltre a ciò, il sindaco di Venezia è anche sindaco dell’omonima “Città metropolitana”, come viene pomposamente chiamata oggi l’ex provincia di Venezia: sindaco metropolitano. Nella parte continentale della “Città metropolitana” gli abitanti sono sedici volte quelli di Venezia e adorano questo metropolita già solo per il fatto che fa di tutto affinché il turismo mordi e fuggi possa continuare a invadere Venezia indisturbato, e loro facciano affari. Su Airbnb e booking.com, perfino paesini del circondario quali Campagna Lupia o Quarto d’Altino si vendono come Venezia.

E la situazione non cambierà di una virgola nemmeno con l’introduzione del ticket d’ingresso, prevista per il prossimo 25 aprile: anzi, emerge chiaramente come Venezia non sia più considerata una città viva, ma sia ridotta in un museo a pagamento. Ai miseri cinque euro non è legato un tetto massimo ai turisti giornalieri: gli abitanti del Veneto, che ne costituiscono il 70 per cento, sono esentati dal pagamento. Il ticket d’ingresso serve solo da foglia di fico per continuare a svendere sfrenatamente la città. “Come pensarla diversamente, se nel frattempo stanno creando quattro nuove linee d’acqua dalla terraferma? Al ticket d’ingresso non è naturalmente collegato un limite al turismo di massa”, afferma Aline Cendon del comitato civico Gruppo 25 aprile.

Quando lo scorso autunno Venezia stava per essere inserita nella lista rossa dei patrimoni dell’umanità in pericolo, l’amministrazione comunale si è salvata col ticket d’ingresso. E il comitato Unesco ha fatto i salti di gioia: il ticket, così ha fatto sapere, è uno straordinario progetto pilota per arginare il turismo di massa che può essere esportato anche in altre città. I flussi turistici saranno tenuti sotto controllo grazie alla Smart Control Room.

Ma a essere tenuti sotto controllo non sono solo i flussi turistici, ma anche i veneziani, obbligati a registrare ogni parente che fa loro visita, anche se solo di giorno, per ricevere un codice QR che consenta di farli entrare in città gratuitamente: una misura degna di uno Stato di sorveglianza.

Quanto interessanti siano questi dati per gli investitori a Venezia, è dimostrato anche dal fatto che l’azienda di trasporti privati Marive si pubblicizza citando una collaborazione con la Smart Control Room. Casualmente, tra i proprietari di Marive ci sono anche gli sponsor della squadra di basket del sindaco, la Reyer Venezia Mestre.

Nella veste di primo cittadino, l’imprenditore Luigi Brugnaro è un conflitto di interessi ambulante. Il fulcro del suo impero economico è la holding Umana, un conglomerato di all’incirca venti aziende: al momento della sua investitura giurò che ne avrebbe affidato gli affari a un blind trust per evitare qualsiasi conflitto di interessi. Ma tra gli sponsor della sua società di pallacanestro figurano svariate imprese che operano a Venezia: per esempio, l’azienda di trasporti privati Alilaguna, che ha tenuto i suoi meeting all’interno della Misericordia gestita dal sindaco, ha assunto lavoratori precari della sua agenzia interinale Umana ed è stata ricompensata sia con affidamenti diretti nel trasporto pubblico urbano, sia con l’ampliamento del suo impero: “Gli sponsor della Reyer in qualche modo hanno dei vantaggi, come nel caso di Alilaguna, che ha ottenuto affidamenti in via diretta di alcune linee senza nemmeno un bando di gara: quest’anno ci sono stati ma almeno fino al 2019 no”, sostiene Marco Gasparinetti. È un consigliere comunale dell’opposizione, esponente della piattaforma civica Terra&Acqua, che ha raccontato su un blog i conflitti di interessi del primo cittadino, e in risposta il presidente di Alilaguna lo ha citato in giudizio con una richiesta risarcitoria di 150mila euro. Per Gasparinetti, è un chiaro caso di causa intimidatoria.

I conflitti di interessi del sindaco approdarono già in municipio, affacciato sul Canal Grande, col suo ingresso nel 2015, quando assunse la sua carica essendo, oltre che ex presidente di Confindustria, anche proprietario di un’area di 40 ettari a Porto Marghera, contaminata da rifiuti tossici sì, ma dalla posizione strategica, che aveva acquistato dallo Stato italiano al risibile costo di 5 milioni di euro. E che, come svelato dall’opposizione nel 2018, voleva vendere all’investitore cinese Ching Chiat Kwong.

Quando a Mestre, lo scorso autunno, un bus è precipitato su un guardrail pericolante e 21 persone ci hanno rimesso la vita, la Procura di Venezia ha delegato parte delle indagini sull’incidente alla polizia locale di Venezia, che è alle dipendenze del sindaco e perciò in conflitto di interessi. E il fatto che la SpA Venis, l’azienda informatica che gestisce la Smart Control Room, su incarico della Procura debba esaminare il materiale tecnologico sull’accaduto, nell’ambito di un incidente che è costato la vita a 21 persone, è perlomeno singolare. E ancora più singolare è il fatto che l’Ad della SpA Venis sia simultaneamente il marketing manager della squadra di basket del sindaco, la Reyer, e il presidente di Attiva, un’azienda informatica che fa a sua volta capo a Umana, la holding del primo cittadino.

I conflitti di interessi del sindaco di Venezia hanno suscitato anche l’attenzione di Report, l’ultimo programma d’inchiesta rimasto nella TV pubblica italiana. Report ha rivelato ulteriori dettagli: per esempio che all’investitore cinese sono stati venduti due palazzi di proprietà del Comune. Mister Kwong ha ottenuto i palazzi Donà e Papadopoli a un prezzo di favore. Per un caso che ha del miracoloso, all’asta pubblica è stato l’unico offerente e se l’è aggiudicata, dopo che il suo uomo di fiducia gli ha scritto: “Non sarà un problema assegnarglielo [il palazzo]. Ho stretto la mano destra del sindaco, e me lo ha confermato”.

Grazie a Report, sappiamo anche che Brugnaro, nonostante fosse già in carica, ha trattato personalmente col cinese la vendita del suo terreno di Marghera. Che il suo tanto sbandierato blind trust ci veda chiaro, è emerso quando, con un filmato, Report ha dimostrato come Brugnaro si sia incontrato con l’investitore al Casinò di Venezia per decantargli il suo terreno, su cui sarebbe dovuto sorgere un gigantesco lungomare. Quando Brugnaro ha preteso per l’affare anche una garanzia a fondo perduto di 10 milioni di euro, per Mister Kwong è stato davvero troppo: l’affare è saltato.

Quanto la carica di Brugnaro sia utile ai suoi affari, lo ha dimostrato anche un esperto di riciclaggio di denaro: dal momento della sua investitura, le riserve liquide delle sue aziende sono decuplicate. Un affare niente male.

Con Brugnaro come sindaco, Venezia rimarrà stretta dalla morsa della commercializzazione. E tutto quel che caratterizzava il Carnevale di una volta, come il teatro d’improvvisazione o i ballerini e i musicisti che sfilavano per le calli, è solo un lontano ricordo.