Il duro lavoro della scrittura

Petra Reski Palermo Connection italiano | Dark Side | Fazi Editore

Le persone con cui trascorro la maggior parte del tempo sono, a loro modo, tutte un po’estenuanti. Wolfgang W. Wieneke è un reporter investigativo, in età critica, che soffre della crisi dei media e di un amore non corrisposto per una traduttrice italiana di nome Francesca.

Serena Vitale è magistrato a Palermo e il suo vero nome è Santa Crocifisso Vitale: non un nome, ma un supplizio. La madre si era impuntata su Santa Crocifissa, in onore della nonna morta di parto. Serena Vitale sta indagando sulla mafia, cosa che la madre reputa un’idea idiota: “Come notaio non avresti avuto una vita più bella? Ti ha forse prescritto il medico di fare la lotta alla mafia?”

Tutti e tre (madre compresa) esistono solamente nella mia fantasia. E ciò non migliora la cosa. Poiché tutti e tre tentano continuamente di sfogare su di me le loro ossessioni.

Naturalmente, ora vorrete sapere come sono arrivata a questo punto: le cattedre resterebbero vuote, i corsi di scrittura deserti, i dottorandi senza il titolo di dottore di ricerca, le pagine culturali dovrebbero essere rimpinzate di cruciverba, se le persone non volessero sapere come uno scrittore è arrivato a escogitare i personaggi che popolano i suoi romanzi.

A tal proposito ci sono essenzialmente due scuole di pensiero: gli uni pensano che i personaggi non siano, neanche un po’, inventati, ma copiati pari pari dalla realtà. L’altra posizione, assunta soprattutto dagli scrittori, afferma esattamente il contrario, cioè che i personaggi di un romanzo esistano solo nella fantasia dello scrittore. Poiché per uno scrittore sarebbe un po‘ offensivo, se l’apice dell’atto creativo consistesse nell’ammazzarsi di lavoro per creare il ritratto del tanto odiato ex con i suoi maglioni pieni di pelucchi e i cui occhi nella realtà sono castani, ma nel romanzo sono blu.

Peggio per uno scrittore sarebbe solo se i suoi romanzi venissero spulciati alla ricerca di tratti autobiografici, come se si potesse scrivere solo a proposito di se stessi. Cosa che naturalmente esiste. Analizzando „La morte a Venezia“, i solerti investigatori letterari hanno scoperto che dietro Aschenbach si nasconde niente di meno che Thomas Mann in persona, intento a scrivere delle sue pulsioni. Nel mio modesto caso si parte dal presupposto che io sia Serena Vitale, soprattutto perché Serena Vitale e io siamo entrambe finte bionde.

Flaubert diceva:“Madame Bovary c’est moi”. E io dico: “Wolfgang W. Wieneke c’est moi”, sebbene questi non abbia più capelli (gli ultimi pelucchi se li è fatti radere recentemente da un parrucchiere turco). Ma sono anche Serena Vitale e Francesca – così come sono anche la madre di Serena, sebbene questa mostri significative debolezze caratteriali, per non parlare della differenza di etàche ci divide.

In fin dei conti gli scrittori si compiacciono volentieri se i personaggi dei loro romanzi sviluppano una vita propria e un tale forza da diventare una sorta di spiriti: entità autonome che ballano attorno alla testa dell’autore e gli dettano l’andamento del romanzo. Personalmente ho messo subito un argine alla danza intorno alla testa. Wieneke vuole continuamente svelare qualcosa, Serena Vitale vuole sconfiggere la mafia: il mio compito consiste nel disseminare il loro cammino di ostacoli. Con i miei protagonisti preferisco usare il pugno di ferro.

Dopotutto, non mi lascerò maltrattare da personaggi romanzeschi spuntati così dal nulla, non lo tollererò.

(Traduzione dal tedesco di Stefano Porreca)

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