Nino Di Matteo

 

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Grazie al sito „Italia all’estero“ è stato tradotto il mio ritratto di Nino di Matteo. (Foto di Roberto Boccaccino)

 A Palermo è in atto un processo che tiene l’Italia col fiato sospeso. Di fronte alla corte vi sono boss, politici e poliziotti. Lo Stato ha collaborato con la mafia? Il magistrato Nino Di Matteo indaga rischiando la vita.

La porta d’acciaio si blocca. E proprio nel momento in cui il convoglio di auto blindate con l’uomo più in pericolo d’Italia vuole entrare: il magistrato di Palermo Nino Di Matteo. Tutti restano col fiato sospeso. Da quando è stato reso noto un ordine di morte della mafia, Nino Di Matteo è sorvegliato da 42 guardie del corpo, nove lo seguono passo passo, alcune sono carabinieri scelti del Gruppo di Intervento Speciale dell’antiterrorismo. 33 agenti sorvegliano la sua casa e controllano le strade su cui il magistrato si muove – ma di certo non possono impedire che adesso la porta si blocchi. Il convoglio d’auto, costretto a stare immobile davanti all’aula bunker dell’Ucciardone, diventa un bersaglio per interminabili minuti. Solo quando due uomini riescono a spingere a mano la porta in acciaio, riprendono tutti a respirare.

Finalmente il convoglio d’auto parcheggia nel cortile. Nino Di Matteo scende dalla jeep blindata e telefona, circondato da soldati scelti, che si muovono sinuosi come fiere e la cui espressione non lascia dubbi che abbatteranno chiunque si avvicini a Di Matteo.

Nino Di Matteo ha 53 anni, un uomo alto e robusto. Siciliano. E’ cresciuto a Palermo, ha condotto processi contro boss, servizi segreti e mandanti di attentati mafiosi, ha fatto luce sugli omicidi di giudici. Conosce il DNA della mafia fin nella più minuscola molecola. Vive sotto scorta da 22 anni. Quando nacquero i suoi due figli le guardie del corpo lo accompagnarono fino in sala parto.

Subito dietro alla rete d’acciaio alta metri, non distante da Di Matteo al telefono, in terra c’è uno striscione in plastica sbiadito dal sole: “Insieme per non dimenticare”. Ricorda i due magistrati antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fatti saltare in aria nel 1992. Di Matteo allora vegliò la bara di Borsellino insieme ad altri giovani magistrati.

Quel momento dell’estate del 1992 divenne un punto di svolta per un’intera generazione di magistrati antimafia italiani. Il sangue dei due giudici non era ancora asciutto, che lo Stato italiano aveva già capitolato e stava negoziando con la mafia.

Questo patto tra Stato e mafia aleggia ancora oggi sull’Italia come una nube tossica. Nino Di Matteo guida il processo che si pone come obiettivo di svelare il patto dietro al quale si cela il più sordido segreto di famiglia italiano. “L’accusa che noi muoviamo non è quella di aver trattato con la mafia. E’ eticamente riprovevole, ma penalmente non punibile”, dice Di Matteo davanti al distributore automatico di caffè nel corridoio gelato dell’aula bunker. “Accusiamo gli imputati di aver fatto da ambasciatori per le richieste mafiose”.

Quando parla del suo processo, non un battito di ciglia in Nino Di Matteo tradisce quanto gli sia costato che abbia derubato lui della sua libertà e la sua famiglia di una vita normale. Soppesa le parole oculatamente, perché sa che ciascuna di esse potrà essere usata contro di lui.

Vista da fuori l’aula bunker sembra una gigantesca astronave approdata accanto alle mura di tufo del carcere dell’Ucciardone. All’interno si possono vedere le gabbie di detenzione ora vuote, sciarpe tricolore, i giurati che stanno masticando le gomme, i pavimenti in linoleum consumato, un crocifisso sulla pedana del giudice e, a caratteri dorati, la formula magica: “La legge è uguale per tutti”. Ovunque telecamere appese come occhi agganciati a stanghe di metallo. A sinistra siedono i magistrati, presieduti da Di Matteo, a destra i difensori.

I boss sotto accusa sono in collegamento video dai carceri di massima sicurezza: sui teleschermi disseminati per tutta la sala si vedono uomini anziani con occhiali da lettura e pullover di lana.

I politici e i servitori dello Stato accusati hanno inviato i loro legali. Perché se sedessero qui tutti insieme sul banco degli imputati, le connessioni tra Stato e mafia smetterebbero di essere invisibili, assumerebbero dei volti. Come il volto arrossato dell’ex ministro degli Interni Nicola Mancino. Oppure il viso un po’ pasciuto dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, braccio destro di Berlusconi, attualmente in carcere per concorso in associazione mafiosa. La faccia baffuta da topo del generale dei carabinieri Mario Mori. Il suo collega Antonio Subranni serrerebbe ancor di più le sue labbra sottili. Tutti loro dovrebbero sedere sul banco degli imputati accanto a boss mafiosi come Totò Riina e suo cognato Leoluca Bagarella. E questo vogliono impedirlo a qualsiasi costo. Quando nel 2013 fu aperto il processo, i giornali titolavano: “Lo Stato processa se stesso”.

Tuttavia continua ad esserci poco interesse. Un pugno di giornalisti che prende nota sui propri laptop: un’agenzia giornalistica, un blogger antimafia, una giornalista de “Il Giornale di Sicilia” e uno de “Il Foglio”, un quotidiano della famiglia Berlusconi, che fin dall’inizio del dibattimento spiega annoiato che considera questo processo sopravvalutato. Sui sedili per il pubblico al di sopra delle gabbie siede una scolaresca che, tra un misto di incredulità ed incapacità di comprendere, segue gli accadimenti. Quando avvenne ciò che qui si tenta di chiarire, questi studenti non erano ancora nati. E ciononostante – e questo lo intuiscono – qui si decide il futuro del Paese e, quindi, anche il loro.

Per molti italiani la trattativa è il peccato originale della Seconda Repubblica, che fu proclamata quando nel 1994 Berlusconi salì al potere. Il patto tra lo Stato e la mafia è il grembo da cui tutto ha avuto origine: l’inizio del predominio di una classe politica che aveva fraternizzato con la mafia. Il patto in Italia ha avuto come conseguenza un decadimento morale senza precedenti: la corruzione diventò un peccato veniale e l’ambiente fu distrutto senza scrupoli.

Già quattro anni dopo gli attentati, dei pentiti rivelarono che nel 1992 i boss avevano trattato con politici e alti funzionari dello Stato e avevano compilato una lista con dodici richieste denominata “papello”, con la quale proponevano la fine degli atti terroristici e offrivano contemporaneamente voti elettorali. Le loro richieste andavano dalla revisione delle condanne del maxiprocesso fino all’abolizione del programma di protezione dei pentiti e del carcere duro per i mafiosi. E furono attuate con sollecitudine. Allora si levarono proteste solo da parte di attivisti antimafia e di magistrati siciliani, come Nino Di Matteo.

E poiché questo patto tra Stato e mafia perdura ancora oggi, il magistrato competente Nino Di Matteo è sorvegliato da 42 guardie del corpo. “Probabilmente questo mi ha salvato la vita”, dice Nino Di Matteo. Intanto il boss Totò Riina è stato intercettato nel cortile del carcere mentre raccontava ad un altro boss del progetto di esecuzione per Di Matteo, che deve essere fatto a pezzi “come un tonno”. Il boss detenuto Vito Galatolo, figlio di un’antica famiglia mafiosa, voleva alleggerirsi la coscienza e ha fatto sapere a Di Matteo che i preparativi per l’attentato contro di lui erano già in fase avanzata: i boss avrebbero raccolto 600.000 euro per acquistare 150 chili di esplosivo. Nino di Matteo dice: “Quando una cosa del genere diventa pubblica, occorre ovviamente tranquillizzare la famiglia.” Fa una lunga pausa e osserva: “Anche se non c’è proprio nulla di cui star tranquilli.”

In questa giornata di udienza sul banco dei testimoni è salito un sacerdote: don Fabio Fabbri. Agli inizi degli anni Novanta, incaricato dal Vaticano, soprintendeva tutti i cappellani carcerari d’Italia. Deve testimoniare come accadde che il carcere duro per 334 mafiosi subì un ammorbidimento ad appena un anno di distanza dagli attentati. “Tutti noi religiosi delle case di detenzione abbiamo tirato un sospiro di sollievo, il carcere duro è inumano”, dice il Monsignore, che tra l’altro non riesce a ricordare chi fu partecipe di questa decisione.

In effetti gli sarebbe calzato bene quel portamento ricurvo da gesuita che l’ex Presidente del Consiglio Giulio Andreotti aveva perfezionato a tal punto da averlo fatto completamente suo. Andreotti fu per sette volte Presidente del Consiglio, l’ultima volta nell’estate del 1992 e venne più volte accusato di aver sostenuto la mafia. Ma don Fabbri non riesce a mostrarsi ossequioso tanto a lungo. Come una fiumana trattenuta dentro a fatica la sua arroganza erompe a più riprese. Se un attimo prima era uno zelante parroco carcerario, ecco che già si trasforma in uno che fa il bello e il cattivo tempo, uno che ha consigliato il Presidente della Repubblica e il Papa e che conosce i più torbidi segreti italiani: la morte del democristiano Aldo Moro, con il cui rapimento ed assassino si doveva impedire “il compromesso storico”, la partecipazione del partito comunista al governo, il “periodo delle stragi”, come viene chiamata l’estate degli attentati di mafia del 1992. Praticamente tutto.

“Avete avuto la fortuna di assistere ad un’udienza significativa”, dirà più tardi Nino Di Matteo, perché l’intera sala delle udienze è raggelata quando il Monsignore è costretto ad ammettere di essersi consigliato con un amico su come riuscire ad impedire la sua deposizione davanti alla corte. Che tipo di amico è questo? “Penso che faccia parte dei servizi segreti”, dice il Monsignore impassibile, come se stesse parlando di un suo confratello. “Lo pensa, o lo sa?”, chiede il magistrato. “Lo conosco dai tempi del rapimento di Moro. Fu allora che feci la conoscenza di Gino. Così si chiama il funzionario dei servizi segreti.” – “Gino e poi?” – “Questo non lo so. Penso che si tratti di un nome di copertura.” – “Ha il suo numero qui?” – “No, purtroppo no.” – “Ha con sé il suo cellulare? Potrebbe esserci memorizzato il numero di Gino.” – “No, il cellulare è di mio nipote.” – “E dove vive questo Gino?” – “Credo a Roma. Ma ovviamente non ne sono certo.” – “Che aspetto ha?” – “Statura media, sui sessant’anni circa, non particolarmente appariscente.”

Il Monsignore era forse al corrente del ricatto della mafia allo Stato? Vide una connessione tra le bombe e l’alleggerimento del carcere duro? No, dice don Fabbri, non sapeva nulla.

Sono proprio questi i momenti in cui si percepisce quanto sia pericoloso questo processo per la rete di agenti segreti, di servitori infedeli dello Stato e di politici. E così nel corso delle indagini viene fuori che agenti dei servizi entravano ed uscivano dal carcere di massima sicurezza per controllare i boss detenuti e soffocare sul nascere possibili confessioni, come accadde per il boss Antonino Gioé, che fu trovato strangolato nella sua cella.

E da quando nell’estate 2014 il procuratore generale di Palermo indaga su questo oscuro ruolo dei servizi segreti nel carcere di massima sicurezza, trova sulla sua scrivania del Palazzo di Giustizia una lettera di minacce, e non da parte della mafia. Le caratteristiche formali della lettera lasciano intuire essere proveniente dall’ambito dei cosiddetti servizi segreti “deviati”. Non solo nella lettera viene descritta nei dettagli la sua casa, ma gli viene anche intimato di “rimettersi in riga” e di non sottovalutare “l’intelligenza altrui”. Perché “non facciamo eroi”, che sta a significare che oltre alla morte esistono altre possibilità per annientare una persona.

Successivamente si viene a sapere che quando la lettera è stata messa sulla scrivania del procuratore le telecamere erano spente. Stasi all’italiana. A confronto con questa realtà “House of Cards” (ndt: serie tv statunitense che narra gli intrighi del potere ambientata a Washington) è un teatrino di marionette.

Monsignor Fabbri non è l’unico che in questo processo cerca di impedire la propria deposizione. L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino a questo scopo ha tirato in ballo nientemeno che l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. I nastri di questa telefonata si sono dovuti distruggere su ordine di Napolitano. Da allora aleggia il sospetto che non si sia trattato di tutelare la privacy del presidente, ma piuttosto di insabbiare il patto tra Stato e mafia.

Tanto più che il suo consigliere giuridico in una missiva al presidente esprimeva il timore “di essere stato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi” negli anni degli attentati mafiosi. Da lì a poco il consigliere personale muore per infarto a soli 64 anni.

Peraltro non è nemmeno l’unica morte oscura del passato recente. Il magistrato fiorentino Gabriele Chelazzi, che tra i primi ha voluto approfondire in un processo i retroscena della trattativa Stato-mafia, è morto di infarto a soli 59 anni mentre stava pernottando in una caserma romana e dopo aver redatto una lettera in cui si lamentava del mancato sostegno da parte dei suoi colleghi, che lo avrebbero ostacolato nelle sue indagini.

“Mentre corteggiava la mafia, lo Stato ha ottenuto esattamente il contrario: non la fine degli attentati, bensì altre bombe”, dice Nino Di Matteo nella luce al neon del suo ufficio a Palazzo di Giustizia. Appese al muro, alle sue spalle, targhette in ricordo di indagini internazionali, un crocifisso e le foto dei magistrati uccisi Falcone e Borsellino. Parla in modo vistosamente lento, come qualcuno consapevole della fugacità dell’attimo.

Che il patto tra mafia e lo stato italiano non sia mai venuto meno, lo si può leggere non solo nelle minacce di morte a Di Matteo, anche il silenzio da parte dei politici al governo ha un che di spettrale. Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, amante dei cinguettii, non ha speso neanche un tweet quando lettere anonime dall’ambito dei servizi segreti hanno avvertito che era stato deciso l’assassinio del magistrato e che i mandanti dell’omicidio erano i medesimi dell’attentato ai danni di Paolo Borsellino.

Senza sostegno politico a Nino Di Matteo non resta altro che affidarsi alle sue guardie del corpo, finché sarà possibile. Non può nemmeno andare a mangiare una pizza, fare una gita al mare con i suoi figli, andare al cinema. È prigioniero. “Spesso rifletto sul fatto che in Italia c’è un grande desiderio di giustizia che pesa sulle spalle di pochi”, dice Di Matteo.

Ci sono state manifestazioni di solidarietà nei suoi confronti in 88 città, è stato nominato cittadino onorario di Modena e “Uomo dell’anno” del 2014 da Beppe Grillo. Alcuni avrebbero visto Nino Di Matteo come Presidente della Repubblica. Ma il Consiglio Superiore della Magistratura gli nega la promozione che gli spetta e colleghi preoccupati per la sua ascesa prendono le distanze da lui. Questo accadde anche a Falcone e Borsellino, Nino Di Matteo lo sa. “Sì”, dice tranquillo, “è triste che non abbiamo imparato nulla dal passato.”

Dopo l’intervista Di Matteo lascia il Palazzo di Giustizia e va a casa da sua moglie e dai suoi due figli. E come sempre cerca di comportarsi come se conducessero una vita normalissima.

Alcuni giorni dopo viene reso noto che dei ragazzi hanno osservato uomini armati in una casa antistante la palestra in cui Di Matteo gioca occasionalmente a tennis.

Articolo originale: „Der bedrohte Jäger“ – Focus 16/2015

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