La morte di Venezia

Adattamento ai cambiamenti climatici

La morte di Venezia

Venezia vittima della catastrofe climatica? Vero a metà. A causa di dispendiose soluzioni palliative, del turismo di massa e della corruzione, la città sull’acqua rischia di scomparire

Di Petra Reski

Traduzione dal tedesco di Stefano Porreca

Mentre qualche sera fa camminavo lungo la Fondamenta Corner Zaguri, le gondole erano ancora poggiate sul fondale. La bassa marea è iniziata l’ultimo lunedì di Carnevale ed è durata una settimana. Il livello dell’acqua è sceso a -70 centimetri sullo zero mareografico. Le immagini delle gondole nei canali in secca hanno fatto subito il giro del mondo: Venezia, il simbolo della crisi climatica. Prima l’acqua alta. Ora la siccità.

Tuttavia ad aver lasciato all’asciutto i canali di Venezia non è stata l’assenza di precipitazioni, ma l’interazione tra l’alta pressione sul Mediterraneo e una marea sizigiale, provocata da una precisa configurazione astronomica. Per effetto della quale, le acque basse e alte risultano più accentuate.

Fondamenta Corner Zaguri

Gli episodi di acqua bassa sono una costante in Laguna, specialmente a gennaio e febbraio: nel 2008, con i suoi -80 centimetri, la marea toccò un minimo ancora più basso. L’ultimo episodio, però, si è protratto per un periodo insolitamente lungo e ha riportato alla luce le fondazioni in rovina dei palazzi e i canali interrati. Il Comune avrebbe potuto approfittarne per decidere di dragarli, restaurare le fondazioni o bonificare i fondali contaminati. A tale scopo ci sono i finanziamenti messi a disposizione dalla Legge speciale, oltre ai fondi europei. Viceversa, la giunta comunale guidata dal sindaco, nonché imprenditore, Luigi Brugnaro, ha deciso di usarli per costruire il cosiddetto «bosco dello sport», ovvero un nuovo stadio in terraferma – per un costo di 107 milioni di euro.

Venezia non è afflitta solo da catastrofi naturali come le alte maree eccezionali, ma anche dal matrimonio forzato con la terraferma. Durante il fascismo la città fu forzosamente unita con la terraferma: al giorno d’oggi a Venezia vivono meno di 50mila abitanti, mentre in terraferma 180mila – la maggioranza dell’elettorato, che non subisce gli effetti né dell’acqua alta né di quella bassa. Senza il matrimonio forzato verrebbero meno i finanziamenti della Legge speciale, così utili per governare la terraferma: finanziamenti che sono destinati alla salvaguardia dei palazzi veneziani, ma finiscono di là dalla Laguna, nei marciapiedi di Mestre. A Venezia, però, dove gli ultimi 50mila abitanti tentano di condurre una vita normale nel mezzo del turismo di massa, l’acqua bassa ha avuto gravi ripercussioni: alcuni canali sono rimasti inaccessibili ai vaporetti, e le idroambulanze non hanno più potuto trasportare gli infermi dalle loro abitazioni.

Venezia, la città dove vivo dal 1991, viene perennemente usata come teatro di catastrofi. Ormai ho perso il conto dei romanzi distopici nei quali la Serenissima viene inghiottita dall’acqua. Eppure Venezia insegna anche come vanno fronteggiate: già durante il Rinascimento uomini savi come Cristoforo Sabbadino compilarono trattati sulla tutela della Laguna. Sono conoscenze secolari cui non si porge ascolto in nome del profitto.

«Noi, qui a Venezia, siamo i canarini del mondo», dice sempre la mia amica Jane Da Mosto. Con la sua associazione non profit We are here Venice, da anni si batte per la rinaturazione della Laguna. Sono originaria del bacino della Ruhr, nella mia famiglia tutti gli uomini erano minatori e ricordo che ridevano mentre raccontavano a noi piccoli la storia dei canarini adoperati nelle miniere come avvertimento in caso di fughe di gas nocivi. Quando inspiravano monossido di carbonio, cadevano dal trespolo.

Da bambina non credevo a questa storia. Ora i canarini siamo noi qui a Venezia. «Noi», in altre parole gli ultimi veneziani superstiti, che sono impegnati in comitati civici, gruppi Facebook e associazioni non profit e oppongono resistenza alla distruzione e alla svendita di Venezia. E se per via dei cambiamenti climatici dovessimo cadere dal nostro trespolo, allora sarebbe troppo tardi anche per il resto del mondo.

Il più grande scandalo di corruzione del secondo dopoguerra

Nel frattempo, grazie al sistema di barriere anti-mareggiata Mose, il problema dell’acqua alta è considerato – perlomeno dall’opinione pubblica – superato. Con le sue paratoie mobili ancorate al fondale marino, che si chiudono a mo’ di dighe in occasione di maree particolarmente sostenute, il Mose ha lo scopo di proteggere la città dall’acqua alta. Non è un caso che il sistema di dighe mobili porti questo nome: chi, se non un profeta incaricato da Dio, potrebbe salvare Venezia? Mo.S.E. è l’acronimo di Modulo sperimentale elettromeccanico. La cui costruzione è costata 8,5 miliardi di euro.

Mose

Nel 1973, a distanza di sette anni dalla devastante marea del 66, Roma ritenne che il caso Venezia fosse una questione di interesse nazionale. E varò la Legge speciale per la salvaguardia di Venezia e dell’«equilibrio idrogeologico» della sua Laguna. Da allora, per gli italiani, Venezia è come un’amante del lusso che vuole sempre soldi, soldi, e ancora soldi, ma che in realtà non ci si può più permettere da lungo tempo. Alla Legge speciale fecero seguito altri provvedimenti legislativi volti a ripristinare la morfologia della Laguna e ad arrestarne e invertirne il processo di degrado. Essi proibiscono ogni intervento sulla Laguna che non venga compiuto per gradi e non sia a un tempo sperimentale e reversibile. Parole d’oro. Visto che il Mose è tutto fuorché «graduale, sperimentale e reversibile».

Se il progetto Mose prese il via fu perché si sarebbe contraddistinto per la sua «invisibilità». Eppure, le opere invisibili, le 78 paratoie che giacciono sul fondo del mare, entrano in funzione solo dopo che quelle visibili hanno devastato la Laguna: la striscia di costa di undici ettari interamente rivestita di calcestruzzo alla bocca di porto di Malamocco, le pareti in cemento della conca di navigazione attraverso cui transiteranno le navi durante l’operatività delle paratoie, il cemento armato del porto rifugio a Punta Sabbioni e l’isola di calcestruzzo alla bocca di porto di Lido. 

La valutazione d’impatto ambientale sul Mose ebbe esito negativo, il che avrebbe già dovuto mettere la parola fine al progetto nel 1998. Se le cose si fossero svolte secondo le regole. Nel 2003, invece, l’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, posò la prima pietra, e il suo successore – nonché predecessore –, Romano Prodi, ne impose la realizzazione contro ogni resistenza: contro le obiezioni della Commissione di salvaguardia, contro tutte le perizie e i pareri unanimi degli esperti e perfino contro l’allora sindaco di Venezia, Massimo Cacciari.

Durante i miei primi anni a Venezia, quando ero ancora molto tedesca, ritenevo che il Consorzio Venezia Nuova, la società incaricata di realizzare il sistema di dighe mobili, fosse un consiglio scientifico: era un nome che alle mie orecchie suonava oltremodo rassicurante, dietro ci saranno sicuramente degli scienziati, pensavo, e chi, se non i scienziati, sa quale sia la migliore soluzione per l’acqua alta?

Solo casualmente appresi che dietro il Consorzio si celava un’associazione di imprenditori edili privati del Nord Italia cui era stato affidato l’appalto senza gara pubblica. Nel 2014, infine, venne a galla quel che tutta Venezia sapeva da lungo tempo: che il Consorzio teneva ministri e alti funzionari a libro paga e aveva elargito favori economici a tutta la città. Al teatro La Fenice, alla fondazione del vescovo di Venezia oppure al sindaco Orsoni, per la sua campagna elettorale. All’incirca 1 miliardo in tangenti. 35 persone, tra cui il sindaco, il governatore, l’assessore regionale ai Lavori pubblici, il ministro delle Infrastrutture, un generale di spicco della Guardia di Finanza e la presidente del Magistrato alle acque, finirono in manette. 

Ora, dopo quasi 40 anni di progettazione, 20 per la sua realizzazione e il più grande scandalo di corruzione del dopoguerra, si dice che il Mose sarà ultimato per la fine del 2023. E qualcuno potrebbe pensare: okay, si è spesa una montagna di soldi e se ne spenderanno ancora – ciascuna movimentazione del Mose allo Stato italiano costa pressappoco 272mila euro –, ma se l’obiettivo è stato raggiunto, va bene così.

C’è un difetto basilare del Mose che è ancora più disastroso: durante la sua progettazione, gli scienziati, le cui valutazioni e previsioni venivano sovvenzionate dal Consorzio, sottostimarono l’entità dell’innalzamento del livello del mare. Stando ai loro calcoli, l’aumento sarebbe stato di appena 22 centimetri entro la fine del secolo. 

Senza le barene lacqua alta non trova ostacoli

Le ricercatrici e i ricercatori del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), tuttavia, già all’epoca avevano calcolato che in uno scenario ottimistico l’innalzamento sarebbe stato compreso tra 28 e 55 centimetri. Gli esperti avevano anche messo in guardia che, in uno scenario pessimistico e verosimile, il livello del mare sarebbe potuto aumentare da 50 a 80 centimetri. E visto che questo non si muove su richiesta del Consorzio, ma si alza a suo piacimento, ciò comporterà che le paratoie non andranno chiuse – com’era nei progetti iniziali – quattro o cinque volte l’anno, ma praticamente tutti i giorni. L’anno scorso il Mose è già stato attivato oltre venti volte.

Con ciò non solo il porto di Venezia perderebbe la sua utilità, visto che le Grandi Navi non possono entrare con le paratoie sollevate, ma verrebbe compromesso anche l’ecosistema lagunare: con la loro costante chiusura, viene a cessare il ricambio idrico con il mare. Già in questo momento le barene, le paludi salmastri che rivestono un’importanza vitale per la conservazione della Laguna, non vengono più sommerse regolarmente. Senza i necessari sedimenti le barene svaniscono, e senza le barene la Laguna si tramuta in un braccio di mare.

Nella Laguna centrale è già realtà. Senza barene l’acqua alta non trova alcun tipo di ostacolo e fluisce sempre più velocemente e furiosamente verso la città. Con un fondale più profondo, il vento produce un altro effetto: la profondità incrementa la velocità del flusso di marea. In origine nella Laguna, con la sua profondità compresa tra 40 e 70 centimetri, non potevano generarsi onde, oggi con una profondità media che oscilla tra il metro e mezzo e due metri le condizioni sono mutate.

Se si è giunti a questo punto, dipende soprattutto dal fondamentale conflitto di interessi tra Venezia e il porto nel suo attuale assetto, con navi da crociera, navi petroliere e navi portacontainer. È per esse che nel corso dei decenni la Laguna ha subìto sempre più escavi. E le Grandi Navi non sono state affatto espulse, percorrono semplicemente un’altra via: le navi da crociera che hanno più di 180 metri di lunghezza e più di 25mila tonnellate di stazza lorda non transitano più per il bacino di San Marco, ma per il Canale dei Petroli – un’autostrada d’acqua che dagli anni 60 è considerata il «killer» della Laguna, visto che è all’origine della devastante erosione della sua parte centrale. «Fuori dalla porta, dentro dalla finestra», si dice in Italia.

Sarebbe pertanto ora di riflettere su soluzioni alternative: sollevare le fondazioni e il fondale lagunare, tornare a riempire il Canale dei Petroli, consolidare i marginamenti degradati. Ed espellere le Grandi Navi dalla Laguna. Un porto nel mezzo di una laguna per sua natura non potrà mai essere sufficientemente profondo per le Grandi Navi. L’approfondimento dei suoi canali ne ha causato la devastante erosione, motivo per il quale oggi la Laguna ha una profondità che va da un metro e mezzo a due metri. All’inizio del Diciannovesimo secolo era profonda appena 40 centimetri. Tuttavia, il primo cittadino di Venezia, Luigi Brugnaro, e il presidente del Veneto, Luca Zaia, non fanno che appoggiare senza riserve l’approdo delle crociere al porto industriale di Marghera, in terraferma, a ovest di Venezia.

Quali interessi ci siano dietro è chiaro: la Regione Veneto è azionista di maggioranza della società per azioni VTP, che, insieme alle compagnie crocieristiche, gestisce il terminal passeggeri. E il sindaco di Venezia ha assunto il suo incarico essendo allo stesso tempo proprietario di un terreno di 40 ettari a Porto Marghera, che ha acquistato dallo Stato italiano per 5 milioni di euro – un affarone per un’area contaminata da rifiuti tossici, ma la cui posizione è piuttosto strategica. Soprattutto se le navi da crociera attraccano al porto industriale di Marghera.

«Venezia è Laguna», dicono a Venezia. L’unica domanda è: per quanto tempo ancora?

(L’articolo è stato pubblicato su ZEIT-online)